::: Chi è Manuela Kustermann :::

 

IL SENSO DELLA VITA SECONDO MANUELA KUSTERMANN


Intervista alla Regina dell'Avanguardia degli anni 70, dal 1963 “musa” del teatro di ricerca.


«LA VITA ha un senso in sé. La mia lo ha per il lavoro che faccio» , dice Manuela Kustermann, romana, attrice di teatro dal 1963, anno del suo debutto con Carmelo Bene. Spiega: «Credo che ognuno abbia un compito da svolgere. Io cerco di conoscermi, di migliorarmi, di fare qualcosa per gli altri. “Conosci te stesso”. Guardati dentro: nel profondo della tua coscienza». Sorride: «Penso di essere nata per fare la modesta, piccola cosa di stare sul palcoscenico. E trasmettere emozioni, energia, gioie, ma pure suscitare inquietudini».


Toccare il cuore del pubblico dà senso al suo essere attrice e alla vita?


«Assolutamente sì».


Lette oggi, davano un significato alla sua esistenza anche l’aggressività e la trasgressività che hanno caratterizzato gli spettacoli dei primi tre anni con Bene?


Ride: «Quando si è molto giovani, si è aggressivi e trasgressivi perché non si capisce bene la vita, si è incapaci di valutare le cose nel modo giusto, non si conoscono le mezze misure. La mediazione non appartiene alla giovinezza. La trasgressione era quasi inconsapevole… Nel Risveglio di primavera di Wedekind recitavo con i seni nudi; mi sono spogliata in Franziska (rispettando peraltro il testo). Non mi denudavo soltanto io, come insegnava il Living. Ho fatto scandalo interpretando, a Verona, il principe di Danimarca nell’Amleto… Se ripenso a quelle stagioni, riconosco di aver commesso qualche sbaglio, ma tendo ad assolvermi. Mi sono trovata catapultata in un mondo che non riuscivo a gestire. E’ anche comprensibile. L’aggressività che sprigionavo mi piaceva, avevo una spavalderia che con gli anni è diminuita. Probabilmente si è attenuata perché, andando avanti, si pretende sempre di più da se stessi e io ho un senso dell’autocritica, mamma mia!, eccessiva. Mi confortano i ringraziamenti del pubblico, quando si chiude il sipario», racconta Manuela Kustermann, che dal 1990 gestisce con Giancarlo Nanni il teatro Vascello, a Monteverde Vecchio.


Si sente sempre l’officiante di qualcosa di sacro, come raccontò una decina di anni fa?


«Sì, il palcoscenico è importante. Sì, sì. Non bisogna mai dimenticarlo. Mai. Il teatro è un luogo sacro, sì. Sì. E, quando è alto, e a me piace il teatro alto, trasmette qualcosa di sacro. Il quotidiano può andare bene in televisione. Sulla scena servono gli eroi, i grandi miti, perché avvicinano all’idea del divino. Gli attori dovrebbero essere un tramite fra il cielo e il pubblico».


Anche l’applauso dà significato alla vita?


«Non è tanto quello, sa…».


L’insuccesso non porrebbe domande sconfortanti sul senso del proprio lavoro?


«Chiaro, chiaro… Intendo dire che è importante essere coscienti di aver fatto una cosa al meglio delle proprie possibilità. Se poi non viene riconosciuto, c’è dell’amarezza. Ma in ogni personaggio che ho interpretato, qualcuno sarà stato meno bello, ho sempre creduto molto e profuso lo stesso impegno: infatti, mi distruggo. E dovunque mi trovo cerco di dare il massimo. Non mi viene riconosciuto? Per me conta aver fatto coscienziosamente il mio lavoro. Questo dà significato al mio essere attrice».


Quale personaggio, più di altri, ha dato un senso alla sua recitazione: Nora in Casa di bambola?


«Beh, Nora è stata una svolta particolare: mi piacerebbe rifare un Ibsen, perché Ibsen scava nell’animo femminile come pochi altri… Non mi stancherei mai di recitare e approfondire Shakespeare…».


Cechov?


«Anche Cechov. Ma Cechov è corale. Adesso stiamo provando Il giardino dei ciliegi (debutteremo al Vascello il 14 marzo): un lavoro in cui bisogna tenere conto di tutti i personaggi. Anche qui sono più le cose non dette che le cose dette. Ma Ibsen è molto più profondo. E poi voglio ricordare l’ultimo lavoro che ho fatto: Loretta Strong di Copi, una figura difficile, talmente diversa da me, questa barbona chiusa in una stanza, che vede i topi, li partorisce… Chi mi ha visto dice che non sono mai stata così brava, che ho raggiunto una maturità… Sono personaggi…».


Che dànno senso anche al suo stare al mondo?


«Eh, beh, sì. Perché poi nella vita, come dice mio marito, annaspo: “Scendi quel gradino del palcoscenico e annaspi”. E’ così: mi sento molto meglio su quelle quattro tavole, molto più sicura. Il teatro è una grandissima scuola. Magari questo piccolo microcosmo si diffondesse… Insegna la disponibilità, la generosità: quando si lavora insieme, nron dimenticando il rigore, bisogna aiutarsi, collaborare».


Manuela Kustermann ricorda un episodio della sua lunga avventura teatrale che testimonia questo spirito compartecipe. E’ accaduto a fine 1999. Doveva recitare A come Alice al teatro La Taganka di Mosca. «Un giorno e mezzo prima del debutto veniamo informati che le scene, che dovevano arrivare da Bogotà, dove avevamo recitato la commedia fino a una settimana prima, non sarebbero mai arrivate». Per non deludere il pubblico russo, lavorando senza tregua per un giorno e una notte, con l’aiuto dei falegnami del teatro diretto da Jurij Ljubimov, i sei attori della compagnia hanno ricostruito per intero la scenografia dei due atti. «E’ stata una follia. Ma ce l’abbiamo fatta. Abbiamo debuttato la sera prevista. E ottenuto un successo formidabile, che si è ripetuto nelle quattro repliche». Questo, sottolinea, spiega cosa intende per darsi tutti una mano. E (anche) questo dà senso alla sua vita, non solo di attrice.


Si interroga sull’aldilà?


«Sono due mesi, ormai quasi tre, che mia mamma è morta. Era molto anziana, aveva 91 anni…», Manuela Kustermann non trattiene la commozione e due lacrime le rigano il viso. «… Ho passato con lei l’ultima notte: se n’è andata con un batter di ciglia… Certo che c’è stato il distacco. Certo che è stato traumatico. Ma ancora ci parlo. Io credo, sì… Sono credente, non praticante per una pigrizia che detesto perché metto sempre la scusa che, siccome faccio l’attrice, tutte le mie energie le impiego là. In parte è vero: chi non fa questo mestiere non lo capisce. Insomma: devo fare una cosa, so fare quella, la devo fare bene… Comunque credo, sì. Amo profondamente la natura, che mi commuove e mi stupisce sempre con il suo ordine meraviglioso. Quindi immagino che ci debba essere Qualcuno sopra di noi… Aspetto di smettere di lavorare per incominciare a leggere, a studiare. E a viaggiare di più».


Sia pure non praticata, la fede attenua l’angoscia della fine?


«Ma io non ho l’angoscia della fine: per il momento, no. No no. Forse proprio perché ho visto andar via serenamente mia mamma… Fondamentalmente sono, comunque, una persona serena. Questa serenità, ne convengo, potrebbe essere scambiata per superficialità: “Ma come fai a essere serena, mentre viviamo un momento catastrofico?”. La forza della serenità mi viene, probabilmente, dal palcoscenico, dove ogni sera, attraverso i personaggi che recito, racconto e testimonio me stessa e la mia fiducia nel teatro che chiamo alto e induce alla riflessione. Oggi la gente si rifugia nel teatro commerciale che non fa pensare. Non legge. Guarda una televisione che è aberrante. Rifiuta, in conclusione, qualcosa che potrebbe dare un senso alla vita. A me lo dà. Ed è un senso nobilmente compiuto».


di Guglielmo Speranza


Contatto con Manuela: info@manuelakustermann.it